




Prendete una costruzione letteraria thriller estremamente contemporanea, con cliffhanger già piazzati strategicamente perché gli sceneggiatori della probabile serie tv non debbano fare troppa fatica nella divisione delle probabili puntate (alla maniera de “La verità sul caso Harry Quebert” per intenderci), aggiungete un vero talento letterario nutrito con i grandi classici della letteratura americana (da Henry James a Philip Roth passando per Francis Scott Fitgerald), così da costruire una “cattedrale” intorno alle proprie ossessioni (nello specifico vecchiaia e morte).
Questi gli ingredienti cucinati con grande maestria da Christopher Bollen, l’autore di questo romanzo thriller dove l’uso di romanzo prima del genere serve quasi a rimarcare le due anime dell’opera, una completamente letteraria, l’altra perfettamente di genere.
Continua a leggereIl biopic sulla vita dell’illustratore inglese Louis Wain – quello dei gatti antropomorfi vestiti alla moda, per capirci – se guardato con una certa sensibilità, nasconde un po’ più insidie di quello che potrebbe sembrare.
Continua a leggereDetesto, amabilmente, le etichette.
Se sui i barattoli di marmellata o una bottiglia di vino ancora riesco a capirne l’utilità, già doverne mettere su una scatola di roba vecchia diventa complicato poi ritrovarne il contenuto.
Mi sono imbattuto in questo libro senza conoscere (colpa mia), niente dell’autrice né della collana dove era stato inserito, ma London Eye sembrava essere un buon spunto per un mistero e così ho iniziato a leggerlo.
I tre protagonisti principali sono ragazzini, uno dei tre, Ted, voce narrante della storia, è un soggetto Asperger, (lui stesso spiega la sua caratteristica paragonando il suo modo di ragionare e rapportarsi al mondo come se avesse installato, nella sua testa, un sistema operativo un po’ diverso dagli altri), appassionato di meteorologia e in piena fase di scoperta della vita.
Ted e la sorella appena un po’ più grande si sentono responsabili della scomparsa del cugino in visita a Londra e per questo decidono di condurre, di nascosto, delle indagini che porteranno alla soluzione della sparizione del ragazzino.
La trama è ben costruita e avvincente, la prosa ricercata e precisa, anche se l’aspetto più affascinante resta il poter guardare la realtà attraverso il “sistema operativo” di Ted.
Per quanto il crimine sul quale si indaga e le dinamiche dei due gruppi familiari siano perfettamente “da adulti”, questo libro è etichettato “per ragazzi” come se si cercasse il colpevole del furto di una torta o della scomparsa di una bicicletta.
Basta che i protagonisti siano dei ragazzi perché un libro debba essere destinato solo a loro? E, giusto per volare altissimi, se consiglio Il giovane Holden a una persona che ha passato i venti anni, sto facendo un errore?
Con un titolo che si rifà al buon Charles Dickens, il Bar delle grandi speranze non poteva – per noi che della scrittura ne abbiamo fatto un lavoro – non farsi notare tra i titoli dalle varie piattaforme.
E, bella conferma, Dickens c’entra davvero con la storia, sia perché dà il nome al bar che diventa un po’ il centro di formazione e scoperta (non solo letteraria, come ogni buon libro dovrebbe fare), del giovanissimo protagonista, sia perché parla, a modo suo, di un (quasi) orfano costretto a inventarsi un posto nel mondo.
E c’entra anche perché il film è tratto dal bel libro (molto autobiografico), “The tender bar” di J. R. Moehringer (quello di Open di Agassi), che omaggia Dickens se non altro per la necessità, scoperta anche grazie a lui, di diventare scrittore.
Gran bel cast, da Tye Sheridan (il protagonista adolescente) a Daniel Ranieri (il protagonista bambino), dal nonno (molto dickensiano, per restare in tema), Christopher Lloyd, alla madre single Lily Rabe, fino a Briana Middleton, perfetta nel ruolo della (quasi)fidanzata sexy, carina e odiosa.
Una nota a parte merita Ben Affleck (che in qualche modo finirà per diventare nella vita di J.R. più importante del padre), forse non è uno di quei grandi attori capaci di interpretare qualsiasi personaggio, ma in alcuni ruoli è perfetto. E questo è uno di quelli.
Bellissima la fotografia di Martin Ruhe, perfettamente al servizio della storia e della regia di George Clooney, più concentrata sul racconto e sugli attori che a voler dimostrare autocompiaciuti virtuosismi.
Una bella boccata di ossigeno insomma.
Lo trovate su Amazon Prime.
Spiegare quella specie di ossessione che prende noi appassionati, magari cresciuti con Proust, Fitzgerald e Tolstoj, per Jack Reacher è operazione tutt’altro che semplice.
Che un autore lanci una serie di libri dedicati a personaggi ricorrenti è abbastanza comune, anche a casa nostra non mancano grandi esempi (da De Giovanni a Carofiglio), ma che un autore crei un unico personaggio e lo segua per tutta la vita – Lee Child scrive del suo Jack Reacher dal 1996 – è già meno comune e qualcosa inizia a dirci.
L’aspetto più sorprendente dell’opera di Child è che parta, più o meno sempre, da un assunto semplicissimo: Jack Reacher è il buono che, per una fortuita circostanza, si trova sulla stessa strada di uno o più cattivi e, grazie alle sue abilità fisiche e mentali li sconfigge. Punto. Fine. Banale fino a sembrare noioso.
E invece non è così.
Lee Child è un maestro nel costruire “i cattivi”. Gli antagonisti (che siano una persona, una situazione o una città), nella penna dell’autore britannico diventano qualcosa di particolarmente “odioso”, che sia per interesse, ottusità, cattiveria o forza bruta poco importa. Senza loro, i ventisei (26!) libri su Reacher non sarebbero diversi dalle centinaia di buone storie che escono ogni anno dalla penna di abilissimi artigiani del genere.
Jack Reacher, dal canto suo, è un personaggio unico, per quanto riprenda il mito del cavaliere solitario. Congedato con onore all’indomani della caduta del muro di Berlino col grado di Maggiore dalla centodecima divisione nella Polizia Militare dell’esercito USA, viaggia ininterrottamente, tra autostop e autobus lungo tutto i 50 Stati americani (con piccole sortite fuori dal Continente). Non ha bagagli e non possiede nulla oltre uno spazzolino da denti pieghevole e gli abiti che indossa.
Jack Reacher è la massima negazione mai raccontata del Sogno Americano (che poi è il sogno occidentale) che, per giunta, non ha alcuna simpatia per l’immaginario orientale (spesso diventato new-age) o invidia per il mito del buon selvaggio. In poche parole, non disdegna il lusso ma non crede che una bella auto possa valere qualche anno di lavoro, ama le donne ma non abbastanza per poter rinunciare alla propria libertà.
Da un paio di giorni è stato rilasciato il trailer di una serie Amazon Prime dedicata ai libri di Child con Alan Ritchson (fisicamente forse un po’ troppo bodybuilder, anche se di viso ha una buona somiglianza con Child/Reacher), che si affianca ai due film con Tom Cruise (altro appassionatissimo fan di Reacher) già usciti in questi anni.
Il buon Ritchson, saprà rendere oltre all’azione anche una certa sofferenza, quasi poetica, del nostro Jack? Il rischio che diventi una baracconata anni ’80 è dietro l’angolo.
In ogni caso, continuerò ad aspettare Jack, nella sua prossima capatina in Europa, qui a Napoli, per fargli capire cosa può essere davvero un caffè…
Dal 4 febbraio su Amazon Prime.