Hiroshima. Contro la banalità dei luoghi comuni.

Ogni anniversario, e quello terribile di oggi (70anni dalla strage di Hiroshima) non è esente, porta con sé celebrazioni, domande e rivendicazioni, alcune legittime altre meno.

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Non è mia intenzione voler giudicare un atto bellico così estremo e terribile, addirittura molto più drammatico di quello che gli stessi alleati potessero immaginare al momento del countdown della missione.

Quello che giudico però patetica e inaccettabile è la rivendicazione che una certa destra nostalgica fa di questo atto, sicuramente inumano, quasi a voler giustificare a posteriori le nefandezze del nazifascismo. Un po’ come quando si tirano in ballo le stragi dei dittatori comunisti mentre si condannano i morti per mano di Mussolini.

In mezzo al dolore che il ricordo di ogni morte deve continuare a suscitare in noi è bene non dimenticare alcune cose, la seconda guerra mondiale, grazie alla nuova tecnologia bellica, ha fin dall’inizio ampiamente utilizzato la tattica di colpire i civili per colpire la nazione. Gli stessi tedeschi, nel 1940, coniarono il termine “coventrizzare”, dalla pioggia di bombe sulla città inglese di Coventry, per indicare i bombardamenti a tappeto su una città per uccidere il più alto numero di civili possibile.

Se il dolore per le vittime non deve guardare la nazionalità dei colpiti (e poca importanza ha se siano questi militari o civili) non è accettabile non considerare la colpa di chi il conflitto l’ha voluto e creato.

Non ha senso cercare di equiparare le responsabilità per i morti di un conflitto tra chi ha iniziato quella guerra, in questo caso specifico quelle dell’asse Roma-Berlino-Tokio, con quelle di chi vi è entrato per difendere il proprio popolo o i propri interessi, come gli alleati.

Ogni vittima di ogni guerra di per sé è innocente (civile o militare che sia), se non per la colpa di appartenere a quella determinata nazione in quel determinato momento storico.

L’invenzione del Paradiso borbonico di Galasso ? No. La realtà dell’inferno di un popolo senza radici.

Riflessioni su Napoli tra realtà e percezione (purtroppo) sempre attuali.

Quello che colpisce del richiamo dell’esimio professore Giuseppe Galasso, classe 1929, formatosi nel pieno di quello che è stato definito l’approccio teologico al Risorgimento (anche da Lucy Riall della London University) non è certamente lo stigmatizzare l’uso improprio di discutibilissimi testi pro-borbonici o meglio ancora anti-risorgimentali, spesso poco più che narrativa spacciata per storiografia che attinge da fonti inattendibili quando non fasulle (e in questo internet ha non poche colpe), né il giustificare la volontà delle case editrici di stampare e spingere queste vendite per “la moneta”.

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Quello che colpisce è l’individuare la causa come reazione ai movimenti (ex)separatisti o localistici come la lega. Adesso, che il movimento storico revisionista abbia preso piede negli anni ’90 è indubbio, ma che il movimento sia iniziato almeno venti anni prima è innegabile. E in aggiunta, pensare solo a questa come causa, a mio avviso, non è assolutamente sufficiente a spiegare un fenomeno di ben altra portata e importanza.

E’ possibile che ancora oggi non si riconosca che per “fare gli italiani” ci sia stato bisogno, sicuramente per prassi e in buona fede, di operare una complessa operazione di “rimozione della memoria”? Poteva bastare cambiare il nome alle strade e impossessarsi di Palazzi e Regge perché una Capitale diventasse provincia nell’arco di due mesi? O inventare la storiella della pizza margherita perché i napoletani diventassero devoti al re francese?

Come si può non riconoscere che questo vuoto abbia generato dei mostri, come una distanza mai colmata con le istituzioni? a meno di non volersi accontentare della tanto amata frase usata dalla propaganda risorgimentista del “Paradiso abitato da diavoli”?

E come dimenticare il peso della rappresentazione negativa diffusa dei meridionali nata con gli esuli del ’48, per lo più borghesi costretti (a differenza di quelli del ’21) a integrarsi con molta fatica nel tessuto del nuovo Paese ospitante e perciò, come splendidamente spiega Marta Petrusewicz, latori di giudizi bipolari positivo/negativo tra la nuova patria e quella di origine creando tutta una serie di antinomie civiltà/barbarie, dolcezza/dolore, progresso/arretratezza, libertà/tirannia ?

E come non riconoscere lo stesso meccanismo nei nuovi “esuli”, quelli della migrazione interna del dopoguerra fino alla fine dello scorso secolo e quelli della migrazione esterna del nuovo millennio ?

Si può ignorare questo complesso di inferiorità indotto a tutto i meridionali dal razzismo, non solo sul piano sociale e nei media, ma addirittura sui libri di testo, dove la lunga storia del regno dei Borbone era liquidata in poche righe, tutte negative, e vista solo come preparazione alla “liberazione” da parte degli eroi del Risorgimento (e di come siano stati inventati questi eroi ci illuminano immensi storici, a partire da D. Mack Smith a seguire).

Poteva quindi bastare per sempre la favoletta dei mille dell’eroe “biondo, bello come un dio”, a cancellare quella che in realtà fu una sanguinosissima guerra, prima di conquista verso uno Stato libero, indipendente e neutrale (tale era il Regno delle due Sicilie) che vide impegnati oltre 100.000 soldati e poi guerra civile trascinatasi per anni (come riporta, tra gli altri, anche l’esimio professore Roberto Martucci dell’università del Salento).

Può un busto di Cavour in ogni città far dimenticare la strage di Bronte o lo scempio a Michelina de Cesare ?

Illudersi che quello dei Borbone fosse un paradiso lasciamolo alle fantasie dei neo-borbonici, ma essere orgogliosi che le nostre radici affondino in un Regno che ha sicuramente più meriti e gloria, per noi meridionali, della breve parentesi savoiarda iniziata con le stragi di migliaia di meridionali e terminata con la morte di centinaia di migliaia di italiani forse può rappresentare un buon punto di inizio per ripartire.

Ps. Sulla scrivere per “la moneta” riportando De Sanctis “La Dama (ndr specializzata in scritti contro i borbone) sta pubblicando il suo lavoro di mera speculazione, e deve essere un’accozzaglia, una sciocchezza. L’editore le aveva detto – fate un lavoro sopra Napoli che si venderà…”

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Il pezzo sopra è la trascrizione di quanto ho scritto per Il Mattino

http://www.ilmattino.it/NAPOLI/CRONACA/l_amp_rsquo_inferno_di_un_popolo_senza_radici/notizie/1484412.shtml

La bufala dell’invenzione della pizza Margherita (e le spese folli del dittatore “Garibaldo”).

E’ incredibile come ancora oggi abbia tanta fortuna la favoletta risorgimentista “dell’invenzione” della Pizza Margherita.
Riporto qui sotto un brano tratto da un mio libro dedicato alla gastronomia del 2011.

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Alla vigilia dell’annessione, la massa monetaria circolante nel Regno delle Due Sicilie rappresentava il 60% dell’intero patrimonio di tutta la penisola, compreso il ricco Stato Vaticano e il piccolo regno dei Savoia; mezzo miliardo in lire piemontesi, invece, furono sottratte da Garibaldi al Banco di Napoli e andarono perse tra Torino, Parigi e Londra – si parla di una cifra nove volte superiore all’intero prestito fatto dai Savoia per la guerra in Crimea. Almeno di 165 milioni, sempre in lire piemontesi, il patrimonio personale di Francesco II che, volontariamente, lasciò al Banco di Napoli e del quale, sempre nel periodo dittatoriale di Garibaldi, se n’è completamente persa traccia. (nota1)

E fu così che nel lontano 1889 i Savoia, dopo aver prosciugato e dissipato le casse del regno più ricco della penisola, riuscirono, complice un geniale pizzaiolo napoletano (nella storia di Napoli c’è sempre un napoletano “complice”) a mettere la firma su una delle peculiarità che avrebbero reso l’ex capitale comunque celebre, per sempre, nel mondo. La pizza. E ironia della sorte, quella che al momento sembrò una celebrazione per la pizza, con la dedica al nome della regina d’Italia Margherita di Savoia, in realtà, nel tempo, è diventata una celebrazione per la signora Margherita di Savoia, della quale, dopo la brevissima vita del regno savoiardo e la fine non proprio gloriosa, ci si ricorda solo per aver dato il nome alla famosa pizza.

Quando Raffaele Esposito, su richiesta della stessa regina, portò alla reggia di Capodimonte, dove la nobildonna si era sistemata (nello splendido parco costruito nel ’700 per volere di re Carlo di Borbone), tre di queste famose pizze – una con pomodoro, mozzarel-la e basilico, una con olio, formaggio e basilico e l’altra con ciceniel-li – di sicuro non fece altro che replicare delle ricette già in uso da tempo. E non solo tra il popolo, poiché la pizza in realtà era amatissima anche alla corte dei Borbone, tanto che Maria Carolina d’Austria, moglie del re Ferdinando di Borbone, aveva fatto costruire un forno apposta nel palazzo di San Ferdinando. In realtà alcune fonti, anche autorevoli come Francesco de Bourcard (nota2) (che raccoglie il testo di Emmanuele Rocco), parlano di pizza margherita già nel 1858 (trentanove anni prima del famoso documento di Brandi), suggerendo il nome margherita dal comune fiore, dal momento che la mozzarella sciogliendosi formava come dei piccoli petali.

Innegabile però che per Raffaele Esposito, marito di Maria Giovanna Brandi, l’aver ricevuto dall’Ufficio di Bocca della Real Casa dei Savoia la lettera ufficiale (ancora affissa nel locale) che esprime-va gratitudine e apprezzamento da parte della regina Margherita per la sua pizza, abbia fatto sì che il locale assumesse un’indubbia valenza storica che nel tempo (e ancora oggi) ha contribuito a determinarne l’enorme fortuna.

nota1:Roberto Martucci, L’invenzione dell’Italia unita, pp. 231-232, Sansoni, Milano 1999.
Nota2:Francesco de Bourcard, Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti, vol II, G. Nobile, Napoli 1858, pp. 120, 127.