Quando la tecnica narrativa supera (di gran lunga) il contenuto.
Immaginate di essere il fortunato (o la fortunata) invitato (o invitata) allo strip-tease di una persona che, a prima acchito, potrebbe essere in grado di farvi girare sul serio la testa.
Bene. Immaginate poi che questa riesca, con una perfetta sapienza di moine e movimenti a tenervi incollati per tantissimo tempo a guardare l’esibizione.
Tra le tantissime dissertazioni che hanno accompagnato l’uscita e il successo di questa bella serie Netflix mi sembra – ma non vorrei sbagliare – che nessuno abbia citato l’antenato letterario più illustre che sottende a tutta la vicenda di Anna Delvey, il racconto di Mark Twain intitolato “La banconota da un milione di sterline”.
E il fatto che la storia di Anna Delvey sia vera, rende il racconto di Twain (di come l’allure della ricchezza fosse essa stessa già ricchezza e di come la furbizia contasse più dei soldi), scritto quasi centotrenta anni fa, ancora più incredibilmente attuale.
Il biopic sulla vita dell’illustratore inglese Louis Wain – quello dei gatti antropomorfi vestiti alla moda, per capirci – se guardato con una certa sensibilità, nasconde un po’ più insidie di quello che potrebbe sembrare.
Per prima cosa, è oggetto da trattare con cura; come tutte le biografie estese, che seguono un arco temporale che muove dalla prima giovinezza fino alla morte, racconta la caducità dell’esistenza escludendo, più o meno di fatto, il classico “lieto fine”, dovendo così ripiegare su una chiusura diversa.
Altro punto da segnalare è che la vita di Louis Wain (impersonato benissimo da Benedict Cumberbatch, in una delle sue interpretazioni più belle), è stata tutt’altro che semplice e, al contrario delle biografie edificanti (per fare un esempio, Charles Dickens: l’uomo che inventò il Natale), i fallimenti e le debolezze di Wain non sono mai realmente riscattati e anche quando gli arriva successo, che pure gli ha consegnato una fama che ancora dura, ci dà l’impressione di non riuscire a dissetare realmente la sua voglia di affermarsi come artista (e tantomeno gli risolve i gravosi problemi economici che sopporta fin da giovanissimo).
Unico lampo di luce davvero cristallina è la storia d’amore, scandalosa per l’epoca, con la governante delle sorelle, poi sua moglie, Emily Richardson (interpretata con delizioso vigore da Claire Foy), interrotta nel pieno della passione, per uno dei tanti eventi tragici delle vite intorno a quelle del protagonista.
Logico (anche se forse un po’ troppo anticipato dalla fotografia, molto bella ma in alcuni momenti, un po’ didascalica, di Erik Wilson), che in questo rifugio romantico, il regista Will Sharpe, cercasse riparo per la chiusura della storia, provando a bilanciare inevitabili magone e lacrime con poesia e bellezza.
Con un titolo che si rifà al buon Charles Dickens, il Bar delle grandi speranze non poteva – per noi che della scrittura ne abbiamo fatto un lavoro – non farsi notare tra i titoli dalle varie piattaforme.
E, bella conferma, Dickens c’entra davvero con la storia, sia perché dà il nome al bar che diventa un po’ il centro di formazione e scoperta (non solo letteraria, come ogni buon libro dovrebbe fare), del giovanissimo protagonista, sia perché parla, a modo suo, di un (quasi) orfano costretto a inventarsi un posto nel mondo.
E c’entra anche perché il film è tratto dal bel libro (molto autobiografico), “The tender bar” di J. R. Moehringer (quello di Open di Agassi), che omaggia Dickens se non altro per la necessità, scoperta anche grazie a lui, di diventare scrittore.
Gran bel cast, da Tye Sheridan (il protagonista adolescente) a Daniel Ranieri (il protagonista bambino), dal nonno (molto dickensiano, per restare in tema), Christopher Lloyd, alla madre single Lily Rabe, fino a Briana Middleton, perfetta nel ruolo della (quasi)fidanzata sexy, carina e odiosa.
Una nota a parte merita Ben Affleck (che in qualche modo finirà per diventare nella vita di J.R. più importante del padre), forse non è uno di quei grandi attori capaci di interpretare qualsiasi personaggio, ma in alcuni ruoli è perfetto. E questo è uno di quelli.
Bellissima la fotografia di Martin Ruhe, perfettamente al servizio della storia e della regia di George Clooney, più concentrata sul racconto e sugli attori che a voler dimostrare autocompiaciuti virtuosismi.
Spiegare quella specie di ossessione che prende noi appassionati, magari cresciuti con Proust, Fitzgerald e Tolstoj, per Jack Reacher è operazione tutt’altro che semplice.
Che un autore lanci una serie di libri dedicati a personaggi ricorrenti è abbastanza comune, anche a casa nostra non mancano grandi esempi (da De Giovanni a Carofiglio), ma che un autore crei un unico personaggio e lo segua per tutta la vita – Lee Child scrive del suo Jack Reacher dal 1996 – è già meno comune e qualcosa inizia a dirci.
Alan Ritchson
L’aspetto più sorprendente dell’opera di Child è che parta, più o meno sempre, da un assunto semplicissimo: Jack Reacher è il buono che, per una fortuita circostanza, si trova sulla stessa strada di uno o più cattivi e, grazie alle sue abilità fisiche e mentali li sconfigge. Punto. Fine. Banale fino a sembrare noioso.
E invece non è così.
Lee Child è un maestro nel costruire “i cattivi”. Gli antagonisti (che siano una persona, una situazione o una città), nella penna dell’autore britannico diventano qualcosa di particolarmente “odioso”, che sia per interesse, ottusità, cattiveria o forza bruta poco importa. Senza loro, i ventisei (26!) libri su Reacher non sarebbero diversi dalle centinaia di buone storie che escono ogni anno dalla penna di abilissimi artigiani del genere.
Jack Reacher, dal canto suo, è un personaggio unico, per quanto riprenda il mito del cavaliere solitario. Congedato con onore all’indomani della caduta del muro di Berlino col grado di Maggiore dalla centodecima divisione nella Polizia Militare dell’esercito USA, viaggia ininterrottamente, tra autostop e autobus lungo tutto i 50 Stati americani (con piccole sortite fuori dal Continente). Non ha bagagli e non possiede nulla oltre uno spazzolino da denti pieghevole e gli abiti che indossa.
Jack Reacher è la massima negazione mai raccontata del Sogno Americano (che poi è il sogno occidentale) che, per giunta, non ha alcuna simpatia per l’immaginario orientale (spesso diventato new-age) o invidia per il mito del buon selvaggio. In poche parole, non disdegna il lusso ma non crede che una bella auto possa valere qualche anno di lavoro, ama le donne ma non abbastanza per poter rinunciare alla propria libertà.
Da un paio di giorni è stato rilasciato il trailer di una serie Amazon Prime dedicata ai libri di Child con Alan Ritchson (fisicamente forse un po’ troppo bodybuilder, anche se di viso ha una buona somiglianza con Child/Reacher), che si affianca ai due film con Tom Cruise (altro appassionatissimo fan di Reacher) già usciti in questi anni.
Il buon Ritchson, saprà rendere oltre all’azione anche una certa sofferenza, quasi poetica, del nostro Jack? Il rischio che diventi una baracconata anni ’80 è dietro l’angolo.
In ogni caso, continuerò ad aspettare Jack, nella sua prossima capatina in Europa, qui a Napoli, per fargli capire cosa può essere davvero un caffè…
È davvero molto raro imbattersi in un prodotto così bello e importante allo stesso tempo, solo per fare un esempio, per quanto fosse importante, l’altra opera di Ava DuVernay – When They See Us – per quanto importante per il tema, non arrivava a questa bellezza narrativa.
Colin in Black & White è invece toccato da quello stato di grazia che fa funzionare tutto, e per tutto voglio intendere le tantissime idee che accompagnano il racconto della nascita di una delle stelle dello sport Colin Kaepernick che con il suo impegno è andato molto oltre i meriti del campo da gioco, tra le altre cose, il gesto di tenere un ginocchio a terra per protesta contro le aggressioni a sfondo razzista l’ha “inventato” lui nel 2017.
La vita del giovane Colin – un bravissimo Jaden Michael – scorre su un maxi schermo come fosse un teen-drama con il vero Colin a fare da presenza e voce fuori campo, al di qua della quarta parete, alternando la parte recitata con alcuni interventi che snocciolano storia, statistiche, studi sociali e cronaca così che concetti come le micro-aggressioni o il “nero accettabile” possano essere compresi, non tanto da chi, privilegiato, non le ha mai subite, ma almeno da chi – e la platea qui si fa grandissima e riguarda tutti noi anche italiani – perché queste categorie valgono non soltanto per i neri ma per ogni fetta di società per qualche motivo discriminata: donne, meridionali, gay, persone dell’Est ecc.
E finalmente arriva una serie dall’identità precisa, fiera del suo genere (giallo-thriller), che non si lascia distrarre dalla tentazione di filosofeggiare sulla morale, non cede al fascino dell’estetica del dolore né vuole diventare un trattato di analisi sociale.
Quello portato sullo schermo da Daniel O’Hara e Hannah Quinn, grazie alla sceneggiatura di Danny Brocklehurst che ha saputo tradurre in immagini un’altra bella storia di Harlan Coben è una perfetta variazione sul tema di un evento, neanche troppo straordinario o eccezionale – la rivelazione di una strana bugia – che travolge la vita di un uomo comune, perfetta perché mantiene fino in fondo la promessa di tenere sempre e comunque in scena persone comuni – esempio lampante, il disastroso inseguimento tentato in auto da Richard Armitage a Hannah John-Kamen.
Altro elemento assolutamente di pregio di The Stranger è la scelta di rivolgersi contemporaneamente sia al pubblico adulto sia a quello più giovane con le indagini condotte dal padre da un lato, e il figlio dall’altro che scorono in maniera parallela su un doppio binario, fino all’inevitabile incrocio, rivelando due gruppi con dinamiche, segreti e vite completamente stagne (anche in questo caso senza farne particolare dramma), fino a quando gli eventi non li mettono in comunicazione.
Ho preferito aspettare otto puntate prima di provare a raccontare un po’ Transplant (su Sky), ultimo medical-drama (degno di nota), arrivato in tv.
Che il genere si sposi benissimo con ritmo e immagini televisive è storia vecchia quanto la tv (il primo medical-drama – City Hospital – è dei primi anni ’50), ma che l’ennesima variazione sul tema possa trovare qualche motivo di interesse nel dinamico e difficile pubblico delle pay-tv (quello che i programmi li cerca e non li subisce, per intenderci), è tutto un altro discorso.
Punto uno. La serie è canadese e non made in USA, cosa in sé che potrebbe significare poco o tanto, ma in questo caso significa moltissimo. Il protagonista è un rifugiato arabo, siriano per la precisione, e lo show punta su un assunto preciso: l’integrazione è l’unica via possibile. E il nome della serie non si riferisce solo all’ambito chirurgico.
Punto due. Perché questo genere possa funzionare davvero ha bisogno di un protagonista carismatico con tanto di interessanti demoni a renderlo unico (inutile ri-citare la genialità, assolutamente da manuale, nella costruzione del personaggio di Gregory House), e questo, almeno fino all’ottava puntata, sembra essere il punto forte di Transplant con Hamza Haq perfetto nella parte e, man mano che la narrazione procede, i suoi demoni che iniziano a diventare sempre più evidenti, speriamo che questa linea narrativa si sviluppi e prenda ancora più spazio.
Punto tre. Primo punto, a mio avviso, più debole. I personaggi secondari, al momento troppo poco incisivi, più adatti a prodotti patinati che a quello che, viste le premesse, Transplant vorrebbe essere.
Punto quattro. Altro punto abbastanza debole o non sufficientemente forte – i casi medici. È vero che la scelta di ambientare lo show nella medicina d’urgenza ha liberato Joseph Kay (il creatore della serie), dalla necessità di farci appassionare alla scoperta della soluzione ed è anche vero che nelle otto stagioni di dott. House si è trattata, probabilmente, ogni patologia possibile che avesse un certo appeal (tanto che nella puntata di Transplant sulla ragazza affetta da CIPA noi spettatori di House sembravamo saperne più dei medici dello York Memorial Hospital), ma qualcosa in più, anche in previsione della sicura (visto il successo), seconda stagione bisognerà inventarsi.
Maid – la serie da pochissimo arrivata su Netflix tratta dal libro autobiografico di Stephanie Land – è molte cose, e tutte belle o interessanti.
La prima è sicuramente Margaret Qualley, che per chi l’aveva già apprezzata in The Leftlovers e ammirata nell’iconico spot Kenzo del 2016 non è certo una sorpresa, ma che potesse reggere in maniera così perfetta le quasi dieci ore dell’opera – la storia è raccontata/vissuta da lei in prima persona, non accade quasi nulla senza di lei in scena – è una bella conferma, difficile pensare a quali attori avrebbero sostenuto così bene questo peso. Bella la scelta di recitare quasi solo con microespressioni senza caricare troppo voce e gesti, se non in pochissime occasioni.
La seconda è il tema principale, la povertà. La povertà negli USA viene, quasi sempre, raccontata in due modi, o come “scenografia” (i classici barboni ai margini delle scene), o come “sconfitta” (donne e uomini, spesso obesi o dediti all’alcol e/o droghe nell’attesa del sussidio). Qui la povertà diventa lo spettro della working class non qualificata che deve lavorare il più possibile per riuscire, integrando assistenza e sussidi, ad arrivare a fine mese.
Altra tema, la violenza psicologica domestica. E anche in questo la Qualley, (ben supportata da Nick Robinson il giovane marito nell’opera), riesce a raccontare benissimo il progressivo annichilimento dato dalla paura, che non è solo quella data da uno scatto d’ira del compagno ma soprattutto del “nero” (attacchi di panico e depressione), nel quale si sente scivolare.
Ultimo punto che voglio di segnalare è la frustrazione, cercata e sapientemente provocata in noi spettatori, dagli autori di Maid. In più di un momento mentre guarderete questa serie vi sentirete frustrati e un po’ arrabbiati con Alex (la protagonista), per alcune sue scelte e comportamenti. È inevitabile. Ed è segno che questo gioiellino stia funzionando benissimo.
(Andie MacDowell che “gioca” a fare l’eccentrica e problematicissima madre di Alex è assolutamente fantastica).
Ci sono canzoni che sembrano libri o, se proprio vogliamo semplificare, racconti.
Quando la scorsa settimana parlando del bel brano di Elodie, Vertigine (qui per i più curiosi), soffermandomi sulla nuova tendenza commerciale di affidare un brano a tre o quattro autori per incontrare con una certa tranquillità i gusti del pubblico ho scritto che l’aspetto “romantico” dell’autore ne risentiva non poco, sono stato un po’ superficiale e troppo ottimista.
Quello che ne risente sicuramente è l’aspetto letterario dell’opera, nel vero senso del termine. Le canzoni smettono di essere forme letterario/poetiche lunghe qualche minuto per diventare un insieme di blocchi di frasi che vanno dai 10 ai 20 secondi.
Non molto adatte a un ascolto “studiato” con tanto di lettura del testo a fronte ma perfette come sottofondo per i reels di Instagram o i video di Tic Toc.
Sia chiaro, con questo non voglio dire che prima tutte le canzoni fossero baciate dai Dei della letteratura e adesso questo tipo di scrittura non esista più, ma che a dominare vendite e classifiche non vi siano più “autori veri” e che i pochi interessanti in tal senso (i primi che mi vengono in mente: Fulminacci, Giò Evan e la Vicario), stiano un po’ ai margini qualcosa pure vorrà dire.
(In Adesso la pubblicità, Baglioni apre con un’immagine – una ragazza che guarda da dietro a un vetro – poi fotografa le storie di quattro personaggi, suggerendone vissuto, classe sociale, istruzione, destini e, prima di chiudere, riesce a metterci dentro – in punta di fioretto – anche lo stridore tra la realtà vissuta e quella raccontata in quell’Italia che nel pieno dell’illusione degli anni ’80 iniziava a rimbambirsi di sogni televisivi piuttosto che affrontare le difficoltà dell’esistenza, per poi chiudere sulla stessa immagine iniziale lasciando – mi si passi il lessico un po’ baglioniano – un lumicino di speranza).
E no, non basta infilare la parola “anima” (magari ripetuta una decina di volte), per scrivere un testo da “autore vero”.