Ma davvero la pizza a Napoli era così schifosa da risultare ripugnante – odiosa – anche agli stessi napoletani?
Be’, se state leggendo questo pezzo è perché, quasi sicuramente, vi sarete imbattuti nelle tante recensioni che sono uscite (e probabilmente continueranno a uscire) sul bel libro “La cucina italiana non esiste” di Alberto Grandi e Daniele Soffiati edito Mondadori.
Piccola premessa personale, per quello che può valere, Alberto Grandi, Daniele Soffiati e il loro podcast DOI (Denominazione di Origine Inventata), mi piacciono tantissimo sia nei toni, divertiti e divertenti, che nei metodi, ottima compilazione e ricerca storica.
Sulla pizza (e Napoli), però commettono – a mio avviso – una piccola ingenuità nella scelta (e del commento) delle fonti, per quanto riportate con accuratezza.
Dire che la pizza a Napoli fosse realmente e solo come la descrivono i vari Dumas, Collodi e Serao sarebbe un po’ come credere che Napoli, nel periodo preunitario, fosse davvero: “un paradiso abitato da diavoli” (frase diventata poi nell’immaginario rappresentazione di una sorta di Paese della cuccagna con una popolazione inetta e incapace che amava soffrire fame e freddo) e, cosa ancor più grave dal punto di vista storico, che tutta l’evoluzione dell’indagine accademica degli ultimi 30/40 anni che ha provato a districare la storia dalla propaganda (risorgimentista) non fosse mai esistita.
Un po’ come tornare ai patetici manuali delle nostre scuole medie e superiori che raccontavano di un sud poverissimo, brutto, sporco e cattivo salvato e liberato dall’eroe alto e biondo dei due mondi e dalla santità della casa Savoia.
Ed è proprio questa l’immagine che le testimonianze riportate dai nostri Grandi e Soffiati offrono della pizza da parte di Collodi, Dumas (gente non proprio dall’indole borbonica) e della Serao (che più che parlare della pizza parla dell’estrema povertà nella quale era piombata la Napoli post-unitaria).
Simbolo di povertà, bruciata fuori e cruda dentro, unta e sporca come chi la vendeva (e la mangiava).
Ma abbiamo modo di provare a capire come altro veniva descritta la pizza nell’Ottocento napoletano senza particolari partigianerie?
Sicuramente la descrizione che ne fa Emmanuele Rocco (uno dei filologi più rispettati del suo tempo e certamente non passabile per simpatizzante dei Borbone), lo scritto è del 1856 o già di lì, è abbastanza indicativa.
Iniziamo col dire che non ha una grandissima opinione dei frequentatori notturni delle pizzerie: giovani scapati, con pochi soldi in tasca che dopo aver passato il pomeriggio a teatro – con dei posti regalati – e far chissà cosa con le proprie ragazze chiudono la serata mangiando una pizza.
Su questo, che il non più giovanissimo filologo e studioso Rocco (è ben oltre i quaranta nell’800, che non sono i quaranta del ‘900 e meno che mai quelli del terzo millennio), non vedesse tanto di buon occhio questi giovani dai costumi così “scapestrati” non suona così strano e la critica sembra più a loro che alle pizzerie (che in definitiva le appella come “luoghi spensierati”).
Poi il Rocco passa a descrivere la pizza più in voga a metà dell’800 che, come giustamente dicono Grandi e Soffiati, era lontana dall’immagine classica che ne abbiamo, senza il sugo che arriverà dopo non perché fosse poco conosciuto o apprezzato (Francesco Mastriani nel 1853 parla di Vermicelli al sugo come piatto diffuso e squisito), ma perché era per lo più stagionale: la più ordinata era quella condita con aglio, olio e origano (che con l’aggiunta di sugo diventerà la marinara).
C’è poi un altro passaggio, a parer mio non raccontato benissimo. Quando il Rocco (o altri) parlano di pizze condite con qualsiasi “cosa venisse in testa al pizzaiolo”, non vuol dire che entravi e sulla pizza buttavano roba a caso anzi, questo è un passaggio importante, perché non solo significa che, visti gli ingredienti possibili – mozzarella, prosciutto, arselle, formaggio, olio – queste non erano per niente un simbolo di povertà (ma su questo ci torniamo), ma erano, come ogni buon fast food deve essere, semplicemente economiche, ma anche, probabilmente che si trattava di un cibo consumato di frequente e che poteva facilmente cambiare “veste” per rompere la monotonia (anche se questo è un concetto sicuramente più moderno).
Sulla pizza simbolo di povertà è forse il caso di spendere qualche altra parola perché povertà e miseria sono sempre state associate, con un certo gusto, a Napoli a partire dalla propaganda risorgimentista fino all’altro ieri; Pino Capogna nella sua cucina tradizionale per i Fratelli Fabbri editore del 1973 ne parla in questo modo “La cucina in Campania è tutta folclore e colore, secoli di miseria hanno stimolato la fantasia di quel popolo che ha saputo trarre vantaggio dalla sua povertà…”.
E pensare che Napoli, probabilmente è stata tra le città del mondo occidentale che vantano più ricettari, almeno fino all’unità. Certo è indicativo, se non altro della pessima fusione a freddo tra le due o tre Italie, che anche nel compendio dell’Artusi la tradizione culinaria dell’ex regno sia quasi completamente ignorata, ma tant’è.
Sia chiaro, che la povertà fosse un problema del popolo napoletano (e di tutta la Penisola), è assolutamente indubbio, come è fuor di dubbio che questa idea del sud miserabile e straccione si stata propagandata e introiettata da un certo momento in poi (come l’uso del termine dispregiativo “terrone” e ancora non riusciamo a liberarcene).
E come è ancora indubbio che per tutta una serie di motivi la situazione economica a Napoli e nel resto d’Italia sia peggiorata dopo l’Unità, basti pensare alle grandi migrazioni di fine Ottocento e di inizio Novecento per il mondo.
Ma chi sono, oltre questi ragazzi dalla dubbia moralità e mezzi squattrinati i frequentatori delle pizzerie napoletane di metà Ottocento? Il Rocco ce li racconta in maniera abbastanza precisa.
I monelli e fanciulli che vanno a bottega iniziano la giornata mangiando la pizza (e qui fa un appunto negativo sulla qualità perché le loro pizze sono fatte spesso con la pasta avanzata dalla sera prima, sarebbero inacidite), nel corso della giornata la clientela cambia e per merenda e pranzo arrivano i fattorini e gli operai, di sera è la volta di quelli che vanno a comprare le pizze da asporto per consumarle in famiglia, poi – note di costume – descrive (con un certo disprezzo) una signora (senza marito) con tre figlie, due delle quali accompagnate da fidanzati dalle intenzioni poco serie, passa poi a una coppia indigente e affamata con tanto di neonato attaccato al seno fino all’arrivo poi dei giovinastri scioperati che dicevamo all’inizio.
In poche parole, chi mangiava la pizza a Napoli? Tutti. Un po’ come accade oggi.
Era l’unica cosa possibile da mangiare? Certo che no, a cominciare dal fast food concorrente, i maccheroni.
Perché poi i napoletani dovessero bruciare la pizze o farle unte da far schifo (come se l’olio non costasse), né il buon Collodi, né Dumas, né Alberto Gandi e Daniele Soffiati ce lo spiegano.
Non sarà stato mica che abbiamo imparato a controllare il forno e dosare l’olio solo grazie all’arrivo del Santo Biondo Eroe dei Due Mondi?