E.Si.Le (Estrema Sintesi Letteraria):  Klara e il sole – Kazuo Ishiguro

Non è semplice parlare dell’ultimo romanzo di Ishiguro perché, se volessi soffermarmi sui temi che muovono la sua opera, né nuovi, né memorabili come l’ambientalismo e l’allarme per una deriva dove le tecnologie (dalla genetica all’elettronica), rischiano di disumanizzare il mondo, gli farei sicuramente un torto.

La bellezza di “Klara e il sole” va cercata “oltre” tutto questo, nel tentativo che fa l’autore di provare a raccontare quanto di ineffabile esista nel mistero della stessa esistenza e per farlo catapulta il lettore in un presente/futuro intellegibile davvero solo a patto di essere disposi a “resettarsi” e a “riprogrammarsi” accettando di entrare in una profonda empatia con Klara – il giocattolo umanoide dotato di intelligenza artificiale – creato per essere “l’amica del cuore” della ragazzina che l’acquisterà.

Ishiguro non dedica molte parole per spiegare in che tipo di mondo ci si trova e né, per offrire in anticipo, le coordinate per muoversi nella sua storia. Neanche alla fine avremo ben chiaro il funzionamento “tecnico” di Klara (che pure, spesso parla del “suo modo di vedere a settori”), né l’ingresso nella narrazione dello scienziato di turno sarà di molto aiuto, così come il rischioso intervento di potenziamento mentale che i ragazzi che aspirano a trovare un posto nella società sono costretti a subire – per quanto centrale – resta poco più che accennato.

Quello che resta, se si riesce a leggere il mondo con gli occhi robotici di Klara è però la (ri)scoperta di una umanità tanto profonda e legata al valore di ogni singola esistenza da voler – e in qualche modo suscitare – dei miracoli.

SNAP! – MAID

Maid – la serie da pochissimo arrivata su Netflix tratta dal libro autobiografico di Stephanie Land – è molte cose, e tutte belle o interessanti.

La prima è sicuramente Margaret Qualley, che per chi l’aveva già apprezzata in The Leftlovers e ammirata nell’iconico spot Kenzo del 2016 non è certo una sorpresa, ma che potesse reggere in maniera così perfetta le quasi dieci ore dell’opera – la storia è raccontata/vissuta da lei in prima persona, non accade quasi nulla senza di lei in scena – è una bella conferma, difficile pensare a quali attori avrebbero sostenuto così bene questo peso.  Bella la scelta di recitare quasi solo con microespressioni senza caricare troppo voce e gesti, se non in pochissime occasioni.

La seconda è il tema principale, la povertà. La povertà negli USA viene, quasi sempre, raccontata in due modi, o come “scenografia” (i classici barboni ai margini delle scene), o come “sconfitta” (donne e uomini, spesso obesi o dediti all’alcol e/o droghe nell’attesa del sussidio). Qui la povertà diventa lo spettro della working class non qualificata che deve lavorare il più possibile per riuscire, integrando assistenza e sussidi, ad arrivare a fine mese.

Altra tema, la violenza psicologica domestica. E anche in questo la Qualley, (ben supportata da Nick Robinson il giovane marito nell’opera), riesce a raccontare benissimo il progressivo annichilimento dato dalla paura, che non è solo quella data da uno scatto d’ira del compagno ma soprattutto del “nero” (attacchi di panico e depressione), nel quale si sente scivolare.

Ultimo punto che voglio di segnalare è la frustrazione, cercata e sapientemente provocata in noi spettatori, dagli autori di Maid. In più di un momento mentre guarderete questa serie vi sentirete frustrati e un po’ arrabbiati con Alex (la protagonista), per alcune sue scelte e comportamenti. È inevitabile. Ed è segno che questo gioiellino stia funzionando benissimo.

(Andie MacDowell che “gioca” a fare l’eccentrica e problematicissima madre di Alex è assolutamente fantastica).

SNAP! – E ADESSO LA PUBBLICITÀ/CLAUDIO BAGLIONI

Ci sono canzoni che sembrano libri o, se proprio vogliamo semplificare, racconti.

Quando la scorsa settimana parlando del bel brano di Elodie, Vertigine (qui per i più curiosi), soffermandomi sulla nuova tendenza commerciale di affidare un brano a tre o quattro autori per incontrare con una certa tranquillità i gusti del pubblico ho scritto che l’aspetto “romantico” dell’autore ne risentiva non poco, sono stato un po’ superficiale e troppo ottimista.

Quello che ne risente sicuramente è l’aspetto letterario dell’opera, nel vero senso del termine. Le canzoni smettono di essere forme letterario/poetiche lunghe qualche minuto per diventare un insieme di blocchi di frasi che vanno dai 10 ai 20 secondi.

Non molto adatte a un ascolto “studiato” con tanto di lettura del testo a fronte ma perfette come sottofondo per i reels di Instagram o i video di Tic Toc.

Sia chiaro, con questo non voglio dire che prima tutte le canzoni fossero baciate dai Dei della letteratura e adesso questo tipo di scrittura non esista più, ma che a dominare vendite e classifiche non vi siano più “autori veri” e che i pochi interessanti in tal senso (i primi che mi vengono in mente: Fulminacci, Giò Evan e la Vicario), stiano un po’ ai margini qualcosa pure vorrà dire.

(In Adesso la pubblicità, Baglioni apre con un’immagine – una ragazza che guarda da dietro a un vetro – poi fotografa le storie di quattro personaggi, suggerendone vissuto, classe sociale, istruzione, destini e, prima di chiudere, riesce a metterci dentro – in punta di fioretto – anche lo stridore tra la realtà vissuta e quella raccontata in quell’Italia che nel pieno dell’illusione degli anni ’80 iniziava a rimbambirsi di sogni televisivi piuttosto che affrontare le difficoltà dell’esistenza, per poi chiudere sulla stessa immagine iniziale lasciando – mi si passi il lessico un po’ baglioniano – un lumicino di speranza).

E no, non basta infilare la parola “anima” (magari ripetuta una decina di volte), per scrivere un testo da “autore vero”.

E.Si.Le (Estrema Sintesi Letteraria):  La spinta – Ashley Audrain

Non è un romanzo di facile digestione questa opera prima, credo, della Audrain.

Non lo è per me che, per ovvi motivi, non ho un rapporto viscerale con la maternità figuriamoci per le lettrici.

L’idea che sottende tutta l’opera è semplice quanto spietata: chi l’ha detto che i bambini sono tanto innocenti da poter essere l’emblema del “puro amore”? E, attenzione, questa domanda così dolorosa da infrangere uno degli ultimi tabù della nostra società può essere letta in ambo le direzioni, dalla madre al bambino e dal bambino alla madre.

Uno degli aspetti più interessanti di tutta l’opera è che la Audrain non si limita a una semplice messa in scena ma cerca, e per questo racconta – alternando più voci – di tre generazioni di madri e figli, la possibilità di spiegazioni e motivazioni psicologiche nei vari comportamenti rendendo, per quanto doloroso, il tutto molto credibile.

E, colpo di genio, fa tutto questo cucendolo in un vero thriller, veloce e godibilissimo con tanto di suspence, colpi di scena e azione.

Avessi qualcosa da scommettere punterei su questo titolo come successo planetario a “La verità sul caso Harry Quebert”, e, fantasticando sul cast per la sicura trasposizione seriale, una Margot Robbie nei panni della protagonista.

SNAP! – VERTIGINE/ELODIE

Per il panorama italiano la musica non è mai stata tanto “commerciale” (senza voler dare alcuna accezione negativa al termine), come in questa ultima stagione che, grazie soprattutto ai social, ha completamente riscritto le regole dI mercato, marketing e fruizione.L’ultima canzone di Elodie sembra esserne il perfetto paradigma con la cantante sempre meno interprete e sempre più performer e la costruzione del brano studiata e realizzata con la stessa cura che si userebbe per la creazione e il lancio di una nuova vettura.

Per scrivere questo brano (sicuramente bello e “funzionante”), sono state chiamate quattro persone: Elisa (che non credo abbia bisogno di specifiche), Durdast (tra i suoi successi, solo nel 2021, Glicine di Noemi, Voce di Madame e La Genesi del tuo colore di Irama), Davide Petrella (quello di Pamplona di Fabri Fibra, Vorrei ma non posto di J-Ax e Fenomenale della Nannini), e Federica Abbate (sono sue Roma-Bangkok di Baby K. e Nessun grado di separazione della Michielin).

Certo un po’ l’aspetto romantico dell’autore che ti vende un mondo va un po’ a farsi benedire ma, evidentemente, questo approccio ha i suoi grandi vantaggi.Unica nota un po’ surreale, possibile che i quattro autori, più l’interprete, abbiano licenziato senza troppa pena la frase: “vorrei soltanto che mi porti per mano” quando “vorrei soltanto mi portassi per mano” ha la stessa identica metrica?

SNAP! – MIDNIGHT MASS

L’errore peggiore che si possa fare nell’approcciarsi a quest’opera di Mike Flanagan è considerarla un horror. Vero è che sarà in quel genere che la trovereste, su Netflix, ma Midnight mass è horror tanto quanto Jesus Christ Superstar è (solo) un musical. Casomai decideste di organizzare una serata horror, con tanto di ragazze, sperando che qualche brivido di paura riduca drasticamente le distanze con loro (ammesso che questo tipo di serata ancora esistano), avreste scelto la serie sbagliata. Per certe cose il buio in sala andava benissimo con Grease, non certo con Jesus Christ Superstar, giusto per tornare all’esempio del musical sopra.

Midnight mass è un’opera dolente che in sette puntate muove una critica ferocissima alle religioni ma non per quanto di deviato possano diventare nella loro secolarizzazione ma proprio per quanto di “presuntuoso” sottenda alla loro stessa creazione, per quanto di “estremo” ci sia, da parte degli esseri umani, nel voler spiegare – pur introducendo dogmi inspiegabili – il grande mistero (insensato) della vita attribuendosene l’esclusiva certezza della Verità.

Logico, visto nell’ottica di un americano, che la religione prescelta per compiere questo processo sia la un po’ esotica – dal loro punto di vista – e radicatissima nel mondo religione Cattolico Cristiana, con le sue tradizioni, riti e liturgie (non a caso il titolo rimanda alla celebrazione più importante del culto, la messa della mezzanotte di Pasqua).

Livello di recitazione altissimo, dai protagonisti (Zach Gilford, Samantha Sloyan), ai personaggi minori (Henry Thomas, qui interpreta Ed, è la dimostrazione del vecchio adagio che recita “non esistono piccoli ruoli ma solo piccoli attori”).

A Kete Siegel, Flanagan affida un monologo da brividi nel sottofinale che riesce, con maestria, a non scadere in un panteismo banale da newage ma, grazie all’ottima scrittura geometrica dell’intera opera, si ricollega alla spiegazione fatta, quasi a inizio serie, sulla nascita delle religioni chiudendo un cerchio che è un motivo di luce e speranza, come i due ragazzi che si “bastano” per quello che già sono in un “qui e ora” irripetibile quanto certamente autentico.

Lo trovate su Netflix.

SNAP! – THE WHITE LOTUS

Cosa fare quando non puoi permetterti un cast da milioni di dollari (a testa) ma devi arrangiarti, si fa per dire, con Alexandra Daddario, Molly Shannon, Murray Bartlett, Sydney Sweeney, Jake Lacy e altri bravi ma non celeberrimi comprimari?

Sydney Sweeney e Brittany O’Grady

Semplice, scrivi una prima puntata che sembra uscita dal manualecome scrivere una grande prima puntata” – strizzando l’occhio alla migliore tradizione della narrativa breve americana – accordi gli attori meglio di un direttore d’orchestra, risparmi un po’ sulla fotografia per concentrarti sul ritmo e il gioco è fatto.

Semplice, dicevo. A patto di avere il talento di Mike White, uno che si è formato scrivendo Dawson’s Creek, che a 37 anni aveva già tre candidature agli Independent Spirit Awards e che trasforma (proprio in The White Lotus), lo shock del coming out del padre (reverendo), in una storia profonda quanto divertente.

Ed è proprio questa volontà di giocare con la realtà quotidiana e i suoi piccoli drammi (senza dover necessariamente scomodare chissà quali avvenimenti straordinari), che legano The White Lotus a quella letteratura che citavo in apertura e,  a questo proposito, basta assistere alla tensione e al disagio che le due adolescenti riescono a creare alla neo sposa trofeo Daddario e come, una banalità come l’errore sulla prenotazione di una camera sveli, nell’avanzare della storia, la vera natura di alcuni personaggi.

In programmazione su Sky.

E.Si.Le (Estrema Sintesi Letteraria):  L’enigma della camera 622 – Joel Dicker

Siamo sinceri, se Joel Dicker non avesse partorito quel successo planetario che è stato “La verità sul caso Harry Quebert” il suo ultimo lavoro “L’enigma della camera 622” avrebbe avuto ben poche probabilità di arrivare nelle librerie di mezzo mondo.

È tanto è innegabile la bravura che sorregge “Harry Quebert” tanto lascia dispiaciuti una certa sciatteria proprio nell’impianto che dovrebbe mantenere l’impalcatura della “Camera 622”, dove Dicker arriva a ignorare persino le regole che lui stesso aveva messo su carta con l’espediente dei due autori in Harry Quebert.

Primo punto, quasi troppo dolente per credere di averlo riscontrato in un libro sicuramente destinato a tanta visibilità: la chiave di volta che sorregge il “colpo di scena” (che poi è il senso di tutto il libro e non a caso arriva poco dopo la metà delle pagine), è assolutamente inverosimile – non ne parlo apertamente per rispetto di chi lo sta leggendo o lo leggerà. Bella l’idea ma del tutto inconcepibile, per una mezza dozzina di motivi, la realizzazione. Grande rammarico, con pochi accorgimenti sarebbe potuta risultare credibile.

Secondo punto, la storia d’amore – che dovrebbe essere il vero motore narrativo – è meno coinvolgente di quelle che si vedono sullo sfondo di una qualsiasi serie tv tra due personaggi secondari. Ambientata (più o meno), ai nostri giorni, non si capisce perché i protagonisti parlino, agiscano e si muovano come protagonisti di un melodramma di fine Ottocento. Piccolo appunto, possibile che l’unica reazione che Dicker riesca a far compiere alle proprie protagoniste sia “piangere singhiozzando”, “rigarsi le guance di pianto” o cose del genere?

L’unica parte che ho trovato sinceramente ispirata (e per questo interessante), è proprio quella che vede lo stesso autore – in un bel gioco di rimandi – protagonista, il suo sincero legame di gratitudine col vecchio editore e l’amore (quello sì intrigante), finito (?) con la sua ex.

SNAP! – NINE PERFECT STRANGERS

Di solito vale sempre la pena aspettare la conclusione di un libro, film o una serie tv prima di esprimere un giudizio, ma, in questo caso, il credito accordato a Nicole Kidman, al bel cast e a Liane Moriarty (autrice della storia, la stessa di Big Little Lies), si esaurisce già molto prima della metà delle puntate previste e quando si arriva, stancamente e per ostinazione, al quinto episodio, l’opinione già abbastanza definita alla fine del secondo episodio si delinea in maniera netta.

Nicole Kidman

Nine perfect strangers non funziona.

L’idea di restare sospesa tra dramma, mistery e giallo è fallimentare perché nessun aspetto della storia – né il dramma, né il mistery né il giallo – riesce mai a catturare l’interesse dello spettatore. Ogni colpo di scena drammatico si allaga nella noia di una narrazione incomprensibilmente compiaciuta, i flash back “mistery” su Masha Dmitrichenko (la Kidman), sono così poco attraenti da rallentare ancora di più un racconto che procede zoppicando.

L’atmosfera un po’ hippy e po’ new age del “centro benessere immerso nella natura” lontanissimi dallo scandalizzare o meravigliare, risulta intrigante quanto una macchinazione dei concorrenti all’isola dei famosi per portare qualcuno al televoto.

In definitiva, se qualcuno ha capito il senso di “Nine perfect strangers”, gliene sarei davvero grato se provasse a spiegarmelo.

In programmazione su Amazon Prime.