Provate a immaginare di portare un cognome come quello di Phoenix segnato, fin dai primi passi nel cinema, dal peso della morte prematura (ad appena 23 anni) di un fratello maggiore (River) bellissimo, bravissimo e amatissimo dal pubblico e dalla critica per autodistruzione da droga.
Non semplice immaginare una cosa del genere, ma indispensabile per comprendere cosa sia stato il mockumentary (film di finzione girato come fosse un documentario) I’m still here – in italiano “Io sono qui”- della coppia Phoenix-Affleck e apprezzarne fino in fondo la grandezza.
Cosa può offrire un attore, ma vale anche per qualsiasi altro personaggio famoso, in pasto al pubblico e ai media se non quello che sarebbe il tuo perfetto tragico epilogo?
La notizia di una grave dipendenza, pensiamo agli ultimi anni di Amy Winehouse o Whitney Houston, o di semplici malattie, e anche in Italia ne abbiamo tanti esempi, mette in moto un meccanismo perverso dove la malsana curiosità di spettatori e lettori alimenta la cinica voglia di successo dei mezzi di “informazione”.
Come fregare tutto questo?
Semplice. A patto tu sia Joaquin Phoenix e abbia un amico altrettanto geniale come Casey Affleck.
Inventi e documenti la tua discesa negli inferi, tra eccessi, sconcertanti apparizioni tv (recuperate quella da Letterman, è da manuale), e notizie “riservate” sapientemente fatte passare ai giornali.
Salvo poi, una volta che su di te siano stati scritte migliaia di articoli, montati servizi tv e preparati sagaci coccodrilli, presentarti dicendo: It’s a joke. I’m still here!. (È uno scherzo. Io sono ancora qui!).
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