90passi – Da “mangia foglia” a “mangia maccheroni” (e le polpette fritte che si mangiano “rubate”)…

Punto 1 “Questa è un’osteria tipica e non un ristorante, a Napoli ne esistono almeno 8375, per cui qui niente spaghetti alle vongole, frittura di gamberi e calamari, e pesce alla brace”.

Matthias-Stomer-Mangiamaccheroni

Il “mangimaccheroni” del dipinto è realizzato da Matthias Stomer che è stato a Napoli dal 1633 al 1637

Niente mi sembrava meglio del “punto 1”, ricopiato qui integralmente dalla pergamena affissa all’interno del locale, per chiarire subito la filosofia che sottende allo splendido lavoro che Luigi e Peppe Maiorano stanno portando avanti nella loro osteria. “Talebano” della cucina tradizionale, come qualche affezionato cliente l’ha soprannominato, Luigi (lo chef) è in realtà un omone dall’aspetto deciso ma bonario, perfetta icona della nobile arte della vera cucina napoletana, dove lo studio e la conservazione della tradizione diventano gli ultimi baluardi della difesa di un’identità appannata dai libri di scuola votati alla necessaria causa della creazione dell’Unità risorgimentale.

E così il menu de La chitarra, forse inconsapevolmente, diventa per i napoletani un vero excursus nelle radici profonde di una storia centenaria e, per tutti gli altri, la preziosa occasione di un viaggio per meglio comprendere la cultura e il comune sentire di un popolo.

L’impossibilità, per il popolo basso, di usare i tagli pregiati e teneri della carne, dava vita a due celebri ricette (già più volte citate) delle cucine napoletane: la genovese e il ragù. Preparazioni che sembrano diversissime, una ha la base di cipolla mentre l’altra di pomodoro, eppure si muovono e completano la stessa necessità, quella dell’affermazione della civiltà, del progresso: il passaggio da “mangia foglia” a “mangia maccheroni”. Passaggio che significava il dominio e la trasformazione della materia prima, piegarla alle proprie esigenze, prima solo nutrizionali, poi, man mano e in maniera sempre più spiccata, del gusto.

Nella genovese la carne veniva stufata nel sugo ottenuto dalla cottura delle cipolle, portando la cottura tanto avanti da ottenere della carne tenera e un sugo molto bruno; nel ragù, lo stesso compito spettava al pomodoro, accogliendo i pezzi di carne e cuocendoli fino a sette o otto ore, fino a quando la carne non avesse rilasciato tutti gli umori al sugo (ormai brunito), riuscendo a fornire un condimento pregevole, di gusto e sostanza, per tanti commensali.

E come spesso succede, talmente forte era l’identità napoletana riflessa nel ragù che ancora oggi, i più esperti, riescono a capire al solo assaggio nella cucina di quale storico quartiere di Napoli la magia si è compiuta: sentore d’aglio per la Ferrovia, cipolla per Santa Lucia ed entrambe per i Quartieri spagnoli.

Altra celebrazione culinaria, i paccheri allardiati. Preparazione semplice, un po’ d’olio dove far lacrimare qualche fettina di cipolla, asciugare i pomodorini, sciogliere un po’ di lardo e mantecare i paccheri (di grano duro e al dente, mi raccomando) con una grattugiata di pecorino. Piatto povero ma capace di fornire l’energia persa in una dura giornata di lavoro (o in una lunga seduta in palestra).

O ancora, altro sapore antico, pasta con polpette al sugo, in cui la mollica di pane (e per cortesia, non chiamatela mòllica!) ha il solo scopo di assorbire meglio l’uovo e il pecorino e legare la carne macinata con il profumo di aglio, prezzemolo e pepe. Rigorosamente cotte nel sugo di pomodoro. Fritte, si mangiavano “rubate”, perché quando in cucina si sentiva l’odore e lo sfrigolio dell’olio, la “prassi” voleva che qualcuno distraesse la cuoca (mamma, zia o nonna che fosse) mentre il più abile ne faceva sparire alcune dalla pila fumante sul piatto di ceramica.

E antico è il sapore della costatella ammollicata, la costata di maiale cotta con poco olio, un’idea di aglio, del vino bianco e del pan grattato. Mentre la brace velata è un omaggio, un richiamo alla velatura del Cristo della cappella di San Severo: su un letto di salsiccia cotta alla brace è adagiata una manciata di friarielli coperti da un velo filante di provola.

Fantastico poi è il baccalà alla Nannina. Dal nome si capisce chiaramente che è una ricetta familiare, e infatti è la riproposizione da parte dello chef del modo in cui sua nonna (probabilmente Giovanna, qui diventata Nannina), al tempo, lo cucinava. C’è sempre da sentirsi onorati quando si ha la possibilità d’entrare in queste tradizioni, e se una famiglia riesce a tramandarsi una ricetta per sessant’anni e oltre, be’, di sicuro ci sono ottime probabilità che sia buona. Baccalà cipolle, olive nere di Gaeta, capperi di Pantelleria e pomodorini, il tutto lasciati cuocere a lungo e a fuoco dolcissimo, perché il baccalà sfaldandosi potesse assorbire tutti i profumi e gli aromi. Basta un po’ di pane casereccio (meglio ancora quello cafone) e il piatto è completo. Una festa sapida e profonda per il palato.

Buona la scelta dei vini e anche quella delle birre artigianali.

La dolce incombenza di chiudere in bellezza è lasciata alla signora Rosaria e alla sua pastiera, al suo babà o meglio ancora alle torte, rigorosamente preparate nella tradizione della sua cucina.

(anche questo brano è tratto dal mio 90passi nella gastronomia napoletana, scritto nel lontano 2010. Per quanto letto su internet il locale sembra essere ancora in piena attività…)

Osteria La Chitarra – Rampe San Giovanni Maggiore, 1/bis – www.osterialachitarra.it

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