Maid – la serie da pochissimo arrivata su Netflix tratta dal libro autobiografico di Stephanie Land – è molte cose, e tutte belle o interessanti.
La prima è sicuramente Margaret Qualley, che per chi l’aveva già apprezzata in The Leftlovers e ammirata nell’iconico spot Kenzo del 2016 non è certo una sorpresa, ma che potesse reggere in maniera così perfetta le quasi dieci ore dell’opera – la storia è raccontata/vissuta da lei in prima persona, non accade quasi nulla senza di lei in scena – è una bella conferma, difficile pensare a quali attori avrebbero sostenuto così bene questo peso. Bella la scelta di recitare quasi solo con microespressioni senza caricare troppo voce e gesti, se non in pochissime occasioni.
La seconda è il tema principale, la povertà. La povertà negli USA viene, quasi sempre, raccontata in due modi, o come “scenografia” (i classici barboni ai margini delle scene), o come “sconfitta” (donne e uomini, spesso obesi o dediti all’alcol e/o droghe nell’attesa del sussidio). Qui la povertà diventa lo spettro della working class non qualificata che deve lavorare il più possibile per riuscire, integrando assistenza e sussidi, ad arrivare a fine mese.
Altra tema, la violenza psicologica domestica. E anche in questo la Qualley, (ben supportata da Nick Robinson il giovane marito nell’opera), riesce a raccontare benissimo il progressivo annichilimento dato dalla paura, che non è solo quella data da uno scatto d’ira del compagno ma soprattutto del “nero” (attacchi di panico e depressione), nel quale si sente scivolare.
Ultimo punto che voglio di segnalare è la frustrazione, cercata e sapientemente provocata in noi spettatori, dagli autori di Maid. In più di un momento mentre guarderete questa serie vi sentirete frustrati e un po’ arrabbiati con Alex (la protagonista), per alcune sue scelte e comportamenti. È inevitabile. Ed è segno che questo gioiellino stia funzionando benissimo.
(Andie MacDowell che “gioca” a fare l’eccentrica e problematicissima madre di Alex è assolutamente fantastica).