Il canto della pianura – Kent Haruf

Non è facile provare a spiegare la grandezza di Haruf, il perché riesca a far vibrare, in maniera così personale, le stesse corde emotive in qualsiasi parte del pianeta venga tradotto e letto.

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Me lo sono chiesto a lungo, e alla fine ho provato a dare una risposta che a me è parsa abbastanza soddisfacente (ovviamente sarei curioso di conoscere anche la vostra opinione).

L’umanità che passa dalle pagine di Haruf trabocca di una tranquilla disperazione, in tutti i tipi umani che racconta, dai piccoli Guthrie alla vecchia signora dei giornali.

Haruf racconta un’umanità disperata senza mai esprimere un giudizio. L’unica condanna che passa dalle sue parole è quella allo squallore (come per Russel e tutta la famiglia Beckman), che per Haruf ha un significato molto preciso: perdita dell’umanità.

L’umanità di Haruf è un’umanità disperata perché parte da un presupposto chiaro: la vita è comunque una continua lotta per la sopravvivenza dove l’uomo è per forza di cose condannato alla disarmonia perché, per quanto buono possa essere, è costretto alla disumanità: non a caso le pagine più strazianti di tutto il romanzo sono quelle dedicate all’atroce, ma in qualche modo tranquilla, sofferenza degli animali.

Due soli i personaggi, che scalciando e ferendosi, contravvenendo alle regole e rischiando tantissimo, riescono a superare l’inverno e a guadagnarsi la speranza di un futuro contro quanto riservato dal destino: Victoria Roubideaux, la ragazzina incinta che decide di tenersi il bambino e rinunciare alla relazione con un fidanzato egoista e immaturo e la Mucca fulva che “finge” di essere gravida, quasi uccide un ragazzino e rischia di restare uccisa per saltare uno steccato e conquistarsi un altro anno di vita.

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