Potrebbe sembrare incredibile (e se non esistessero i social molto difficilmente sarebbe accaduto), ma la scelta di un idolo già per una buona parte di pubblico teen-agers che andrà nelle sale a guardarla
nei (pochi) abiti di Ariel ha addirittura creato un “caso”, con tanto di solita petizione per cercare di influenzare la scelta della Disney-Pixar sul ruolo da protagonista per il film su la Sirenetta.
Motivo, la Bailey non solo non è di pelle chiara con i capelli rossi ma, addirittura, è afroamericana.
Escludiamo, visto che non meritano alcuna considerazione, le tante critiche razziste o complottiste sui soliti e vari poteri forti e occulti che vorrebbero “imporre” una nuova idea di società (di questo passo, signora mia, dove andremo a finire?), ma fermiamoci un momento sulle due critiche più ragionevoli: la corrispondenza al testo originale e l’aderenza all’immaginario collettivo della nostra Ariel.
Due critiche che però si fermano davanti a una sola evidenza.
L’idea che Ariel, per quanto sirena e non concittadina suo autore danese Hans Christian Andersen e che quindi la trasposizione cinematografica debba ricalcare il suo ideale del tempo è suggestiva ma poco importante.
Quante scelte azzardate, ben più profonde dell’estetica della sua creatura mitologica, sono state già compiute nella precedente lettura della Disney senza che nessuno battesse ciglio?
Sebastian, Flounder e Scuttle non escono dalla penna di Andersen.
Molto probabilmente Andersen non amava il reggae.
Andersen scriveva che la trasformazione in bipede di Ariel fosse accompagnata da un dolore terribile, come “una spada che ti taglia in due”, particolare ignorato nel cartone animato della Disney.
Ariel, oltre la parola, nella fiaba originale perde anche la lingua.
Andersen, molto probabilmente, non amava Alissya Milano e mai l’avrebbe scelta come “modella” (basta vedere l’immagine realizzata al tempo da Vilhelm Pedersen per apprezzarne la differenza.
Il finale della fiaba è drammatico, non c’è alcun lieto fine e la Disney, per rendere la fiaba più attraente per i ragazzini di tutto il mondo ha completamente ignorato lo spirito del racconto e il messaggio di Andersen.
(E su quanto sia dura scegliere un finale non proprio lieto ne so qualcosa per la mia Estelle…)
Basteranno queste motivazioni che dimostrano in maniera spietata quanto fosse già poco filologica la prima versione della Disney a convincere i detrattori della brava Halle Bailey?
Molto probabilmente no. La motivazione più proposta sarà: “ma noi Ariel l’abbiamo sempre immaginata così, bianchiccia con i capelli rossi”.
Piccola domanda: perché mai l’avete sempre immaginata così? Forse per la lettura che avete fatto della storia di Andersen? Certo che no. L’avete immaginata così per il semplice fatto che la Disney, nella versione del 1989, ha creato questa “icona”. E non è un caso che siano proprio le ragazzine e i ragazzini di fine anni ’80 i più restii ad accettare questa nuova versione.
E siamo finalmente arrivati al punto. Un colosso come la Disney può tranquillamente scegliere di affidare un ruolo a una ragazza con un’immagine completamente diversa dall’iconografia da lei stessa creata per la semplice ragione che è in “grado di farlo”.
I più cinici penseranno anche a un mero calcolo economico in vista dell’identificazione e del gradimento per una fetta di mercato spesso trascurata. Ed è assolutamente logico. Ma è lo stesso che è stato fatto quando si è deciso di regalare un bel lieto fine ad Ariel e non farle perdere la coda tra atroci sofferenze.
Perchè questo cinema, oltre a costruire miti e icone, muove anche una montagna di soldi…
Grazie per la lettura, questa è la mia pagina…
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