E qui c’è tutta l’arte, l’antica lotta alla fame e il senso autentico, che forse andrebbero attribuiti al mestiere dello chef. Provo sempre un profondo rispetto verso le massaie, i cuochi, i monzù, che hanno saputo trasformare “gli scarti” della cucina nobile (o meglio sarebbe dire “dei nobili”) in cibo e pietanze deliziose.
E qui parliamo realmente di scarti, di quelle parti degli animali che generalmente vengono gettate via e spesso provocano anche un certo disgusto, come le interiora di bovino e maiale.
Già il nome, le zendraglie, pare che altro non sia che la traduzione in lingua napoletana di “les entrailles!” (le interiora!) il grido, il richiamo, che durante il regno angioino i lavoranti delle cucine reali usavano pronunciare nel gettare dalle finestre del castello gli avanzi, le interiora – in buona sostanza gli scarti (appunto) – alla gente affamata che s’accalcava sotto.
Ma se il termine zendraglia è passato a definire per estensione (e in senso spregiativo) le donne del ceto più basso, pronte ad accapigliarsi per queste miserie, la trippa, sapientemente cucinata con pomodoro, prezzemolo, salsa e zafferano è presto degna della tavola dei signori, come riporta Giambattista del Tufo[1].
E oggi? La trippa e le interiora in genere (e in Francia ancor più che da noi), godono ancora di un folto pubblico di estimatori. Antonio Moglie, proprietario de le zendraglie, racconta di una clientela quanto mai eterogenea, e basta affacciarsi nella piccola sala (che ospita, comode, una trentina di persone) per capire quanto sia vero; al tavolo in fondo, i cinque ragazzi alle prese con delle braciole di cotica, probabilmente per il fine settimana non disdegneranno il panino del clown.
Più a lato, un signore con la faccia antica consuma il pranzo da solo, guardando, di quando in quando, il posto vuoto davanti a lui, mentre con la forchetta porta lento alla bocca succulenti bocconi di trippa al sugo e piccoli pezzi di pane profumato.
C’è anche una giovane coppia, probabilmente turisti alla loro “prima volta” in un locale del genere, con lui che fa di tutto per sembrare spavaldo nella scelta sul menu, anche se appare già evidente che sarà lei a dare il primo assaggio e a gustarsi lo stentiniello ripieno al forno (intestino d’agnello ripieno e servito con contorno di patate) appena ordinato, probabilmente senza sapere di cosa si trattasse.
Oltre alle interiora, poi, è possibile mangiare anche, a seconda della disponibilità, i piatti della tradizione tipica casereccia napoletana, pasta e fagioli, pasta al forno, genovese, alici fritte e altre pietanze a base di pesce.
Se dopo una passeggiata a via Toledo, vi trovate davvero a passare qui, nel mercato della Pignasecca, non dimenticate di prendere un cartoccio di ’o per e ’o muss (piedini e muso del maiale bolliti per ore, fino a che la cartilagine quasi si scioglie) e pezzetti di rumine, reticolo e centopelle (la trippa), il tutto condito con sale e molto limone.
Ma se siete così fortunati da trovarvi qui nei pochi giorni del vero freddo napoletano, ricordate che non c’è niente di meglio per scaldarsi che un buon piatto di zuppa di soffritto (frattaglie di maiale soffritte con salsa di pomodoro, spezie, alloro e tanto peperoncino piccante), una fettina di pane cafone (a farina mista) e la migliore bottiglia di cabernet che potete permettervi.
L’opera che state ammirando è “The Shrew Katherina” (1898) di Edward Robert Hughes. La Katherina è la protagonista de La bisbetica domata e la trippa è la pietanza che le viene negata nel piatto…
(anche questo brano è tratto dal mio 90passi nella gastronomia napoletana, scritto nel lontano 2010. Anche la Trattoria Le Zendraglie è ancora lì pronta a servire le sue frattaglie ai clienti)
Grazie per la lettura, se vuoi possiamo restare in contatto, clicca qui per la mia pagina facebook.
https://www.facebook.com/massimopiccoloofficial/
[1] Giambattista del Tufo, Ritratto o modello delle grandezze, delizie e maraviglie della nobilissima città di Napoli, 1588 ca.