Perché Beppe Severgnini su blogger e influencer ha torto.

Come giornalista sono stato molto fortunato, quando per alcune traversie, ancora universitario ho avuto bisogno di mantenermi e ho pensato che scrivere fosse una buona soluzione, iniziai – semplicemente inviando qualche proposta – a collaborare con Affari Italiani, Il Nuovo.it (purtroppo scomparso) e il Corriere, allora ogni pezzo mi veniva pagato dai 50 ai 120 euro (e anche molto di più se riuscivo a piazzare un pezzo a mia firma su Elle, all’epoca ancora di Rcs). Ci campavo bene.

italien-beppe-severgnini-berlusconi

Poi però ho preferito scrivere per il teatro e da qualche anno il cinema (piccole cose che mi piace anche dirigere) in attesa di completare il mio primo vero romanzo. Ma questo interessa poco.

Beppe Severgnini (indubbio maestro di giornalismo), riprendendo il libro Gli sbafatori di Camilla Baresani, derubrica i blogger a sbafatori perché spesso pagati (specie i food blogger) con cene e alimenti (a volte rivenduti su ebay per fare cassa), e si interroga su cosa sia diventato oggi il mestiere di giornalista con gli aspiranti giornalisti non retribuiti. Commettendo un grosso errore. E provo a spiegare il perché.

La mia “carriera” di giornalista l’ho chiusa nel 2003. E già all’epoca ero estremamente privilegiato rispetto a tantissimi colleghi che venivano pagati (quando venivano pagati perché spesso collaboravano gratis in cambio del tesserino) pochi euro ad articolo, e ricordo che spesso chi doveva seguire le conferenze stampa non riusciva nemmeno a pagare benzina e parcheggio.

Che questo fosse un lavoro, in un certo senso, infame dove davvero ne partivano 1000 perché uno potesse arrivare a mantenersi con questo mestiere non è certo una novità o colpa dei blogger.

Punto secondo. Ancora più importante.

La figura di influencer che Severgnini ha un po’ ingenerosamente sottostimata (come se non fosse una professione difficile e rispettabile) non è certo un’invenzione dei blogger, ma ne esiste e resiste una pletora, al soldo di giornali e tv. Chiamiamoli Influencer 1.0 o, se preferite, Sbafatori 1.0.

Coccolati, ospitati, corteggiati, invitati e convinti a suon di gadget, conferenze stampa in luoghi esotici e bellissimi (ovviamente tutto pagato, con tanto di auto e autista a prelevarli fino a casa) e ringraziati con pacchi dono e forniture (che certo non avranno bisogno di rivendere su ebay ma potranno regalare a loro volta per aumentare il prestigio personale).

Confrontiamola adesso con i Blogger gli Influencer 2.0.

Prendo ad esempio la mia amica Patricia Manfield (fashion blogger e influencer), viaggia in tutto il mondo per indossare i capi che le aziende di moda le propongono. Sono certo che avrà tutto pagato e sarà anche retribuita per farlo.

A una lettura superficiale potrà sembra la stessa cosa. Ma in realtà è molto diverso. Ed è molto, eticamente, più corretto.

Mentre il blogger (moda, food o altro non importa) o l’influencer è egli stesso il brand principale e quindi dichiarato, il giornalista (influencer 1.0) in realtà sfrutta un marchio non suo ma la testata (carta stampata o tv che sia) che rappresenta.

Mi spiego meglio. Se Patricia Manfield indossa un capo di Pinco Pallino è Pinco Pallino che paga Patricia perché sta facendo un’operazione di co-branding (il brand Patricia Manfield più Pinco Pallino).

L’influencer lavora per diventare un brand.

Se lo chef stellato offre la cena e regala una bottiglia di vino da 1.000 euro al giornalista per avere una recensione o per arrivare in un cooking show televisivo (visto quanti ce ne sono?) allora sta pagando un intermediario per arrivare al vero brand cioè la testata del giornale o la rete televisiva.

Volendo estremizzare, se i blogger o gli influencer 2.0 sono “gli sbafatori” gli influencer 1.0 sarebbero, nel ragionamento, “i papponi”.

Ovviamente anche per i blogger o gli influencer 2.0 vale lo stesso discorso dei giornalisti, su 1000 che partono ne arriva 1 e non può fare a meno di studiare e lavorare durissimo.

Solo per dovere di cronaca è bene aggiungere che il mio blogger non è un veicolo pubblicitario né ambisce a esserlo e che pur avendo menzionato Patricia Manfield in questo post la prossima volta che l’incontro, da buon gentleman, sarò comunque io a offrirle il caffè.

Grazie moltissime per la lettura. Se vuoi possiamo restare in “contatto” con un semplice click qui sotto.

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