Il fascino emanato da Timpani e Tempura è di quelli capaci di farti voltare la testa. È come passeggiare per strada e incontrare all’improvviso Kate Perry vestita come nel video California girls che ti sorride, non c’è alternativa.
Anche se hai accanto la persona che ami, e proprio in quel momento le stavi giurando (credendoci) amore eterno, volti la testa indietro per guardarla ancora.
Per poterlo capire fino in fondo, bisogna fare un passo indietro.
Non siamo ancora negli anni ’80, il panorama gastronomico napoletano e nazionale è abbastanza desolante. Di revisionismo e memoria, riferiti alla lunghissima storia della Napoli capitale di una delle maggiori potenze mondiali, allora pochissimi (e tra l’altro non napoletani) ne sapevano qualcosa, e ancor meno ne parlavano.
Ed è solo per caso che Antonio Tubelli, sindacalista convinto e molto attivo in quegli anni così importanti per le lotte operaie, s’imbatte, coinvolgendo nello studio anche il fratello Lucio, ne Il cuoco galante di Vincenzo Corrado (1773) al quale farà seguire Lo scalco alla moderna di Antonio Latini (1692) e Cucina Teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti (1837).
Esaltante immaginare la “scoperta” di quanto fasto, ricchezza e opulenza, anche attraverso le preparazioni culinarie, avesse investito Napoli in un passato neanche tanto remoto. E mentre il ricordo delle immagini del tg, dei titoli dei giornali e dei cori negli stadi per “la città del colera” del decennio passato era ancora forte, per i Tubelli si apriva lo scrigno della Napoli grande capitale europea, centro di raccordo e fusione di tre importanti realtà, quella francese, austriaca e spagnola.
E quanto anche la cucina napoletana fosse rimasta vittima della mistificazione risorgimentista lo si trova ancora nella letteratura gastronomica degli anni ’70 del Novecento, come nel libro del povero Pino Capogna, dove si possono leggere frasi del tipo “La cucina in Campania è tutta folclore e colore, secoli di miseria hanno stimolato la fantasia di quel popolo che ha saputo trarre vantaggio dalla sua povertà[…] pensiamo alle origini quasi spontanee della pizza”[1].
Quello che ai fratelli Tubelli apparve subito drammaticamente reale, però, fu che se non tutta, almeno la gran parte, dell’arte dei monzù si era persa. Gli ingredienti della ricca cucina napoletana, composta principalmente di pregiatissima selvaggina proveniente dall’enormi riserve di caccia oltre che di procedure estremamente sofisticate ed elaborate, erano rimasti seppelliti dall’improvvisa povertà piovuta dallo smembramento della capitale e dalla volontà di consegnare l’immagine della gastronomia napoletana come cucina del popolo, costituita semplicemente dalla pizza e di quanto il mare elargiva.
Scoperta che porta nel 1986 alla nascita – prima come cenacolo d’amici, poi come vero laboratorio del gusto – de Il Pozzo, dove Antonio comincerà a formarsi come chef, percorso che completerà quando, nel 1989 avviene l’illuminante incontro con lo chef Angelo Paracucchi, che avvia un sodalizio che durerà fino al 1995. Incontro determinante per l’apertura alle nuove tecniche e a una certa sperimentazione creativa.
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Chiusa l’esperienza de Il Pozzo, i fratelli Tubelli, si dedicano al recupero del vecchio concetto di “bottega gastronomica”, creando con timpani e tempura un luogo dove l’alta gastronomia napoletana potesse diventare d’asporto, ma non nella semplice accezione di “cibo portato via”, ma come riscoperta (che spesso diventa ri-creazione) dell’uso del timpano (torta o timballo) come contenitore naturale, fatto di pasta frolla, rustica o, nella variante messa appunto dallo chef, di sottilissima e trasparente pasta all’uovo, per poter consumare in strada (o a casa propria) deliziosi pasticci di pasta, carne o verdura.
Timpano di paccheri in piedi in pastafrolla, timpano ai frutti di mare, timballo ai due ragù (carne e verdure); e ancora gli scammari (una sorta di timpani senza crosta) ai friarielli (broccoletti napoletani) e ai frutti di mare; e poi sartù, gattò, rustici. E come non rimanere incantati di fronte alla la riproposizione delle spume (la mousse francese)? Davvero difficile da descrivere la spuma di mozzarella: servita su un letto di pomodoro e profumata con una foglia di basilico, si presenta in tutto e per tutto (sapore compreso) uguale a una grossa mozzarella di bufala. Tranne che per la consistenza “al cucchiaio”.
Quasi naturale l’utilizzo di cacciagione per gli arrosti e gli stufati: meravigliosa la lombatina di cinghiale e fagioli, e di sicuro effetto anche il coniglio farcito (che si presenta completamente disossato e legato come fosse un arrosto di maiale).
Altra caratteristica forte del locale, tanto da completarne il nome, è la tempura, l’uso di rivestire, con una leggerissima pastella, verdura o pesce prima di immergerli nell’olio, in modo che l’alimento resti protetto dall’olio bollente (che ne comprometterebbe il sapore) e allo stesso tempo possa beneficiare di una croccante crosticina. Bene. Se tutti sanno che al Giappone si deve la massima espressione di questo modo di friggere, molti ignorano che quest’uso è stato portato in oriente dai marinai portoghesi che a loro volta, l’avevano appreso dai monaci cristiani che per tre giorni (mercoledì, venerdì e sabato) all’inizio di ogni stagione (periodi chiamati tempora, da cui tempura, durante i quali non potevano mangiare carne) usavano preparare una pastella per friggere pesce e verdura. E così Antonio Tubelli, ogni mercoledì e giovedì, propone la sua selezionatissima tempura.
Varia e golosa la sezione dolci, dalla torta tatin al pandolce con fichi e uva, e ancora pasticci otto crema e amarena, ma anche il pasticciotto mela e rosmarino: meravigliosa poi la nuvola al limone, dove “nuvola” sottolinea la leggerezza del pan di spagna. E non tragga in inganno l’assenza del limoncello e della panna: questa non è la variante povera o la versione rustica della delizia al limone, anzi, la perfetta (in)consistenza della base e l’assenza della materia grassa nella farcia non fanno altro che esaltare la naturale dolcezza del limone procidano. Squisito e molto sofisticato. Per finire, lo stesso gioco realizzato con la mozzarella lo ritroviamo nella spuma (o mousse) di panettone.
(anche questo brano è tratto dal mio 90passi nella gastronomia napoletana, scritto nel lontano 2010. Non so se il locale è ancora o no in attività. Aspetto notizie 🙂 )
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[1] Pino Capogna, La cucina tradizionale, Fratelli Fabbri editori, Milano 1973.